Essere sé stessə: dal trauma dello stigma alla cura affermativa e compassionevole
- Dottoressa Fedele Denise

- 3 lug
- Tempo di lettura: 14 min
di Dott.ssa Denise Fedele, Psicologa, Sessuologa e Consulente Sessuale

Introduzione:
Per molte persone LGBTQIA+ poter essere sè stessə è un traguardo faticosamente conquistato. In un mondo in cui l’identità viene spesso accolta solo se conforme alle norme dominanti, vivere apertamente il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere può trasformarsi in un’esperienza segnata da vergogna, rifiuto e invisibilità. Eppure, ogni individuo ha bisogno di sentirsi riconosciuto, visto e accolto nella propria autenticità per poter costruire una vita piena, libera e significativa.
Questo articolo nasce dal desiderio di esplorare le ferite prodotte dallo stigma – invisibili ma profondamente radicate – e di offrire uno sguardo terapeutico capace di restituire dignità, valore e speranza. Partendo dal concetto di minority stress, analizzeremo gli effetti psicologici di un ambiente ostile e invalidante, per poi mettere in luce la forza trasformativa del coming out, l’importanza storica e simbolica dei moti di Stonewall, e il potere terapeutico dell’orgoglio.
Infine, approfondiremo gli approcci clinici più efficaci – come la terapia affermativa e la compassion-focused therapy – per sostenere il percorso di cura, riconnessione e autoaffermazione delle persone LGBTQIA+.
In questo contesto, anche le comunità LGBTQIA+ giocano un ruolo cruciale nella promozione della resilienza psicologica: offrono spazi di supporto, riconoscimento e appartenenza, contribuendo alla costruzione di un’identità positiva e integrata. Parallelamente, l’educazione sessuale e affettiva – se inclusiva, scientificamente fondata e accessibile – si configura come un potente strumento preventivo e protettivo: per parlare di sessualità in modo consapevole, informato e rispettoso; per contrastare stigma, disinformazione e discriminazione; per favorire la conoscenza di sé, la gestione delle emozioni, la capacità di costruire relazioni sane e per promuovere il rispetto delle differenze.
Perché la salute, come ricorda anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, non è solo assenza di malattia, ma benessere fisico, psicologico e sociale. E questo benessere non può esistere dove c’è invisibilità, paura o vergogna: si costruisce nella possibilità, concreta e quotidiana, di essere sé stessə senza paura.
Il riconoscimento della propria identità: fondamento del benessere psicologico
Il bisogno di essere riconosciuti nella propria identità è uno dei fondamenti dello sviluppo psicologico sano. Ogni essere umano costruisce la propria immagine di sé attraverso lo sguardo dell’altro, in una dinamica relazionale in cui il riconoscimento sociale svolge una funzione essenziale. Quando questa validazione è assente o viene sostituita da messaggi svalutanti, si genera una frattura interna che può compromettere la stima di sé, il senso di appartenenza e la possibilità di sviluppare relazioni autentiche.
Minority stress: il peso dell'oppressione invisibile

Il concetto di minority stress è stato elaborato dallo psicologo statunitense Ilan Meyer (2003) per descrivere una forma specifica di stress cronico vissuta dalle persone appartenenti a gruppi minoritari stigmatizzati, come la comunità LGBTQIA+. Questa teoria offre una chiave interpretativa essenziale per comprendere il disagio psicologico che non deriva dall’identità in sé, ma dall’ambiente sociale ostile e discriminatorio in cui la persona è costretta a vivere.
Secondo il modello del Minority Stress (Meyer, 2003), le persone appartenenti a minoranze sessuali e di genere vivono una forma di stress cronico aggiuntivo rispetto alla popolazione eterosessuale e cisgender.
Il minority stress si manifesta su tre livelli interconnessi, ognuno dei quali contribuisce a un carico emotivo e psicologico significativo:
Stress esterno (discriminazione e stigma)
Qui rientrano le esperienze dirette di pregiudizio, come atti di violenza, esclusione sociale, molestie, discriminazioni lavorative o scolastiche. Questi eventi, spesso imprevedibili e traumatici, hanno un impatto immediato e duraturo sul benessere emotivo. Inoltre, la minaccia costante di tali eventi genera una tensione continua, aumentando il senso di vulnerabilità.
Stress anticipatorio (vigilanza e ipercontrollo)
La consapevolezza della possibilità di discriminazione porta a un’anticipazione costante del rischio. La persona sviluppa quindi una strategia di ipervigilanza, cercando di prevedere e prevenire situazioni pericolose o giudicanti. Questo stato di allerta prolungato può generare ansia, isolamento sociale e limitare le scelte di vita, compromettendo la qualità delle relazioni e delle opportunità.
Stress interiorizzato (omonegatività interiorizzata)
Forse il livello più subdolo, l'omonegatività interiorizzata consiste nell'interiorizzazione di credenze sociali negative nei confronti dell'omosessualità o delle identità di genere non conformi. Questo può manifestarsi in forma di vergogna, colpa, rifiuto di legami affettivi autentici, fino all'auto-svalutazione o all'auto-sabotaggio. L'individuo può adottare strategie difensive per nascondere la propria identità, oppure sviluppare comportamenti iper-adattivi (iper-conformismo, eteronormatività performativa) per evitare il rifiuto. In terapia, è cruciale riconoscere e decostruire questi meccanismi, spesso inconsapevoli, che ostacolano la possibilità di vivere relazioni affettive e sessuali appaganti.
Il minority stress è un fattore di rischio per diversi disturbi mentali, tra cui ansia, depressione, disturbi da stress post-traumatico, abuso di sostanze e suicidio. Studi epidemiologici mostrano tassi significativamente più alti di questi problemi nelle popolazioni LGBTQIA+ rispetto alla popolazione generale (Hatzenbuehler, 2009; Meyer, 2003).
L'origine di questa sofferenza, infatti, è la risposta negativa e ostile dell’ambiente, che può rappresentare un agente attivo di rischio o protezione.
Infatti, il riconoscimento della propria identità di genere o del proprio orientamento sessuale delle persone LGBTQIA+, spesso ostacolato da stereotipi, invisibilizzazione o vere e proprie forme di rifiuto, può determinare l’interiorizzazione di un’immagine negativa di sé e l’insorgere di sofferenza emotiva.
Al contrario, il riconoscimento positivo – da parte di familiari, amici, istituzioni, media, terapeuti – può avere un impatto trasformativo, rinforzando la fiducia in sé e il senso di dignità personale.
Numerosi studi dimostrano che le persone LGBTQIA+ che ricevono supporto e validazione per la loro identità mostrano livelli significativamente inferiori di disagio psicologico, maggiore soddisfazione nelle relazioni e una più alta qualità della vita (Ryan et al., 2010; APA, 2012). Inoltre, sentirsi riconosciuti nella propria unicità favorisce l’autoefficacia, la capacità di autodeterminarsi e di costruire un progetto esistenziale coerente.
Il coming out: un processo di affermazione del proprio Sé

Il coming out è un processo continuo, dinamico e spesso complesso che accompagna la vita della persona LGBTQIA+ in molteplici fasi e contesti.
Non è soltanto un atto comunicativo rivolto all’esterno, ma rappresenta un passaggio cruciale nella costruzione dell’identità personale. È, prima di tutto, un gesto di affermazione del sé: un momento in cui la persona smette di nascondere o frammentare parti essenziali della propria esperienza e decide di viverle con autenticità.
In psicologia dello sviluppo e nella teoria dell’identità, l’affermazione del sé è il processo attraverso cui un individuo riconosce, accetta e dà valore alle proprie caratteristiche fondamentali, tra cui l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Quando questo processo avviene in un contesto sociale che stigmatizza tali aspetti, l’autoaffermazione diventa un atto di coraggio e di autodeterminazione.
Secondo gli studi di Rosario, Schrimshaw e Hunter (2011), il processo di coming out è associato a un incremento della consapevolezza di sé, a una maggiore coerenza identitaria e a una riduzione dei sintomi depressivi, specialmente quando avviene in ambienti supportivi. Questo suggerisce che l’affermazione dell’identità non è solo un’esigenza individuale, ma un processo relazionale e sociale che necessita di riconoscimento.
Nel coming out, la persona dichiara non solo “chi è”, ma afferma implicitamente: "merito di essere conosciutə, rispettatə, amatə per ciò che sono". Questo ha un impatto diretto sull’autostima, sull’integrità psichica e sulla possibilità di vivere relazioni autentiche e nutrienti. È un momento in cui si passa dall’invisibilità alla presenza, dall’adattamento alla libertà.
L’affermazione del sé attraverso il coming out comporta anche la rottura di un paradigma di vergogna interiorizzata. In un contesto culturale che ha spesso promosso l’idea che essere LGBTQIA+ sia qualcosa da nascondere, l’atto di dirsi è un modo per risignificare la propria storia, per darle dignità e valore.
Il primo coming out può avvenire internamente, quando una persona riconosce e accetta la propria identità. Questa fase può richiedere tempo, soprattutto se l'individuo ha interiorizzato stereotipi negativi. Segue poi la condivisione con altri: amici, familiari, colleghi, medici, educatori. Ogni occasione può diventare un nuovo "primo" coming out, perché ogni ambiente presenta rischi e opportunità differenti.
Vivere il coming out come processo significa anche comprendere che la propria identità può evolvere nel tempo, così come cambia il linguaggio con cui la si esprime. Le persone transgender, non binarie o queer, ad esempio, possono affrontare diversi coming out lungo il loro percorso identitario, anche in relazione alla transizione o alla ridefinizione del proprio orientamento.
Il coming out, quindi, non è mai del tutto concluso: è una pratica quotidiana di autenticità che può essere più o meno esplicita, a seconda del contesto e del senso di sicurezza percepito. Questo processo implica una costante negoziazione tra visibilità e protezione, apertura e prudenza. Non dichiararsi può essere una scelta legittima di tutela, e non va letta come mancanza di coraggio.
In un’ottica terapeutica, facilitare l’affermazione del sé significa sostenere la persona nel passaggio dalla sopravvivenza alla vitalità, dal silenzio alla parola, dall’adattamento al protagonismo. Non si tratta di “convincere a dichiararsi”, ma di accompagnare a trovare modi autentici, autonomi e liberi per esprimere chi si è, in sintonia con i propri tempi e bisogni.
Sostenere chi affronta questo percorso significa riconoscere la complessità del vissuto, senza semplificazioni o pressioni. L’ascolto empatico, la validazione e l’assenza di giudizio sono strumenti fondamentali per accompagnare la persona nel suo cammino verso l’autenticità e l’autodeterminazione.
Moti di Stonewall e orgoglio queer, quando la psicologia incontra la storia e il diritto di essere sé stessi

Prima della notte del 28 giugno 1969, la condizione delle persone LGBTQIA+ era segnata da una repressione sistematica a livello legale, medico e culturale. In gran parte degli Stati Uniti – e in molte altre nazioni occidentali – gli atti omosessuali erano criminalizzati; le relazioni tra persone dello stesso sesso potevano comportare l’arresto, la perdita del lavoro, l’allontanamento dalla famiglia o la reclusione in istituti psichiatrici. L'omosessualità era ancora classificata come disturbo mentale dall'American Psychiatric Association (APA), e la terapia “riparativa” veniva praticata con metodi invasivi, come l’elettroshock o la castrazione chimica.
La cultura dominante imponeva una rigida eteronormatività, e ogni deviazione dai ruoli di genere prestabiliti veniva stigmatizzata o patologizzata. I bar come lo Stonewall Inn rappresentavano alcuni dei pochi luoghi in cui le persone queer potevano incontrarsi, ma erano spesso soggetti a ricatti, controlli di polizia e vessazioni. Era un tempo in cui l’esistenza LGBTQIA+ era possibile solo nell’invisibilità o nella clandestinità.
In questo contesto di marginalizzazione e paura, i moti di Stonewall segnarono una svolta storica. Quella notte, nel quartiere di Greenwich Village a New York, lo Stonewall Inn divenne il fulcro di una rivolta spontanea contro l'oppressione. Persone trans, nere, lesbiche, drag queen e giovani emarginatə reagirono a una delle ennesime retate della polizia, dando vita a giorni di protesta. L’evento non fu solo una rivolta, ma un atto di dignità collettiva: esistere apertamente diventava un gesto rivoluzionario. Da quel momento, il movimento di liberazione queer prese forma, gettando le basi per le battaglie civili, culturali e terapeutiche ancora in corso.
Orgoglio: una dimensione terapeutica e sociale

Da un punto di vista psicologico, l’orgoglio non è semplicemente l’opposto della vergogna, ma una forza che ripara ferite identitarie e alimenta resilienza. Laddove l’omonegatività interiorizzata ha insinuato il dubbio di essere “sbagliati”, l’orgoglio restituisce dignità, forza, agency. Numerose ricerche indicano che l’identificazione positiva con la propria identità LGBTQIA+ è correlata a migliori indicatori di salute mentale, minori livelli di depressione e ansia, maggiore soddisfazione relazionale e benessere complessivo (Meyer, 2003; Riggle et al., 2011).
Recuperare l'orgoglio della propria identità sessuale o di genere è un passaggio fondamentale per il benessere psicologico. Non si tratta di esibizionismo, ma di legittimazione. Essere fieri di ciò che si è è un antidoto potente contro la vergogna, l'isolamento e la paura.
Vedere altre persone vivere liberamente la propria identità – in strada, sui media, nei contesti educativi o terapeutici – crea un effetto specchio che legittima l’esistenza e amplia lo spazio del possibile. È in questo senso che il Pride diventa un atto terapeutico collettivo: cura attraverso la visibilità, attraverso la rappresentazione, attraverso la connessione.
Celebrare il Pride, quindi, non è solo un’occasione festosa. È la rivendicazione pubblica del diritto di esistere in sicurezza, con visibilità e dignità.
Per molte persone LGBTQIA+, soprattutto quelle cresciute in contesti ostili o privi di rappresentazione positiva, partecipare a un Pride o incontrare per la prima volta una comunità affermativa rappresenta un momento trasformativo: la possibilità di sentirsi finalmente parte di qualcosa, di essere visti e accolti senza dover nascondere alcuna parte di sé.
Per chi lavora in ambito clinico, educativo o sociale, sostenere l’orgoglio delle persone LGBTQIA+ significa non solo aiutarle a superare la sofferenza, ma anche accompagnarle a riconoscere la bellezza e la forza della propria unicità. Significa spostare il focus dalla patologia all’autenticità, dal deficit alla potenzialità, dalla sopravvivenza alla fioritura.
Interventi terapeutici
Nonostante le difficoltà, molte persone LGBTQIA+ sviluppano straordinarie capacità di resilienza. Il supporto sociale, il riconoscimento dell’identità, la costruzione di comunità di appartenenza e l’accesso a terapie affermative sono fattori protettivi fondamentali.
L'affirmative therapy è un approccio terapeutico che riconosce le identità LGBTQIA+ come variazioni naturali dell'esperienza umana. Affermare significa accogliere, normalizzare e validare l’orientamento sessuale, l’identità e l’espressione di genere della persona, indipendentemente dal fatto che siano stabili o in evoluzione. Non patologizza l'identità, ma si focalizza sul supporto all'autenticità della persona. La terapia affermativa considera il contesto socio-culturale e politico in cui la persona vive. Non si limita al “lavoro interiore”, ma riconosce il peso di norme eteronormative e binarie, e aiuta la persona a fronteggiarle in modo adattivo. Gli obiettivi sono: validare le esperienze soggettive, rafforzare il senso di sé, costruire resilienza e sviluppare una rete di supporto sociale. L'approccio affermativo implica anche una formazione continua del terapeuta sulle tematiche di genere, sessualità e intersezionalità.
Accanto a questo, la compassion-focused therapy (CFT), sviluppata da Paul Gilbert, si è rivelata particolarmente efficace per lavorare con pazienti che hanno interiorizzato vergogna o senso di inadeguatezza. La CFT promuove una relazione compassionevole con se stessi, riconoscendo il dolore emotivo come parte dell'esperienza umana e sviluppando una voce interna più empatica e meno giudicante. Questo è fondamentale in contesti in cui l'autocritica è diventata la forma dominante di dialogo interiore. La CFT aiuta a riconnettersi con il corpo in modo gentile, ridurre l’evitamento o il disprezzo corporeo, costruire un senso di “casa interiore”, reinterpretando la propria storia in chiave evolutiva e compassionevole, riconoscendo la forza e la resilienza maturate, affermando la propria identità nonostante (e grazie a) le difficoltà vissute.
L’importanza delle comunità LGBTQIA+ nella promozione della resilienza psicologica

Nella prospettiva dei modelli ecologici e intersezionali, la resilienza, intesa come capacità di affrontare, adattarsi e riorganizzare il proprio equilibrio psicologico in risposta a eventi traumatici o stressanti (Luthar et al., 2000), si sviluppa anche attraverso le relazioni interpersonali e il senso di appartenenza a gruppi di sostegno, in particolare per le minoranze sessuali e di genere (Meyer, 2003; Singh & McKleroy, 2011).
Per le persone LGBTQIA+, le comunità affermative rappresentano un fattore di protezione significativo contro gli effetti del minority stress (Meyer, 2003). Diversi studi hanno mostrato che il senso di appartenenza a una comunità per le persone LGBTQIA+ può contribuire a rafforzare l’autostima e la self-efficacy, a contrastare l’omonegatività interiorizzata, a ridurre l’isolamento sociale e la solitudine esistenziale ed a favorire esperienze di riconoscimento e validazione identitaria (Snapp et al., 2015; Craig et al., 2015)
Questo perchè l’esperienza in comunità contribuisce allo sviluppo di una resilienza non solo individuale, ma anche collettiva, intesa come capacità condivisa di affrontare l’oppressione attraverso supporto reciproco, narrazioni alternative e costruzione di significati positivi.
Recenti ricerche sulla queer resilience evidenziano come le comunità LGBTQIA+ non solo offrano protezione, ma contribuiscano alla costruzione di forme di soggettività resistenti e creative, capaci di trasformare lo stigma in azione e autodeterminazione (Singh et al., 2013).
Per questo in ambito clinico, oltre al trattamento del minoriity stress con forme affermative di supporto psicologico, è necessario validare l’esperienza della comunità come fonte di identità, sostegno e crescita e accompagnare il soggetto a rivolgersi alle comunità sul territorio; esplorare nel soggetto eventuali vissuti ambivalenti legati alla partecipazione comunitaria (esclusione, elitismo, razzismo o transfobia intra-comunitaria); infine, facilitare l’accesso a contesti relazionali positivi, specie in caso di rottura dei legami familiari o isolamento sociale in seguito al coming out.
Educazione sessuale e affettiva: un fattore preventivo e protettivo

Un’educazione sessuale inclusiva ha un ruolo cruciale nella prevenzione del pregiudizio. Programmi educativi basati sull'evidenza scientifica, che includano informazioni corrette su orientamento sessuale, identità di genere, consenso, rispetto e diversità, sono associati a una riduzione significativa di bullismo, stereotipi e violenze.
Parlare di sessualità non significa promuovere comportamenti rischiosi: significa offrire strumenti di conoscenza, consapevolezza e rispetto. Significa proteggere le persone, non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico, relazionale e sociale.
Un’educazione sessuale completa, scientificamente fondata e adatta all’età consente di:
Prevenire gravidanze indesiderate e infezioni sessualmente trasmissibili
Promuovere comportamenti sessuali sicuri e consapevoli
Ridurre il rischio di abusi, molestie e relazioni basate sul controllo o la manipolazione
Sviluppare la capacità di stabilire e riconoscere i propri confini, e di esercitare il diritto al consenso
L’educazione sessuale è un processo graduale che, se avviato fin dall’infanzia con un linguaggio adeguato all’età, permette alle persone di crescere con più strumenti, più rispetto per sé e per gli altri, meno vergogna.
Un'educazione affettiva e sessuale ben strutturata promuove anche il benessere psicologico degli adolescenti LGBTQIA+, offrendo strumenti per comprendere e accettare se stessi. E fondamentale inoltre per contrastare l’omonegatività interiorizzata, la solitudine e l’isolamento.
Purtroppo, molte persone crescono in contesti dove la sessualità è ancora associata a tabù, colpa, silenzio o esclusione. Questo può generare disinformazione, disagio psicologico, difficoltà relazionali e problemi di autostima. Tuttavia promuovere percorsi informativi in età precoce è necessario per contrastare la disinformazione e il moralismo: significa prevenire la sofferenza psicologica e promuovere una cultura dell'empatia.
Conclusioni
Il percorso verso l’accettazione e l'inclusione delle persone LGBTQIA+ a livello sociale è ancora oggi irto di ostacoli, ma è anche un cammino di straordinaria forza, dignità e resilienza. I moti di Stonewall non furono un punto di arrivo, ma l’inizio visibile di una lunga lotta per la liberazione, che affonda le radici in una storia fatta di invisibilità, oppressione e coraggio silenzioso. Ricordare quel contesto significa riconoscere quanto il semplice atto di “esserci” sia stato – e spesso sia ancora – un gesto politico.
Ancora oggi, il coming out rappresenta un atto di autoaffermazione che può incontrare resistenze profonde, radicate in norme culturali, religiose e istituzionali che continuano a escludere e a stigmatizzare. Per questo, ogni spazio sicuro, ogni relazione affermativa, ogni intervento educativo inclusivo ha un valore trasformativo. La terapia affermativa e quella centrata sulla compassione non sono solo strumenti clinici: sono atti etici e culturali che contrastano la vergogna e restituiscono voce, legittimità e speranza a chi è stato silenziato troppo a lungo.
Promuovere contesti di riconoscimento – in famiglia, a scuola, nei servizi sanitari, nella società – e creare contesti in cui ogni identità possa sentirsi vista, ascoltata e rispettata è una misura preventiva di salute pubblica. Validare le identità significa contrastare la marginalizzazione e contribuire alla crescita di individui più resilienti, connessi e vitali.
È necessario promuovere una cultura dell’empatia e dell’educazione, capace di prevenire il pregiudizio e sostenere il diritto universale a vivere con pienezza la propria soggettività.
Essere sé stessə non è mai stato scontato. Ma oggi più che mai è un diritto che va difeso, protetto e promosso – in ogni aula, in ogni ambulatorio, in ogni spazio pubblico e privato.
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